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Intention-to-treat (ITT) o Per Protocol analysis (PP)? La domanda di shakespeariana memoria è un dilemma per molti ricercatori alle prese con i clinical trials.
In questo articolo, ti illustrerò in modo semplice il significato di ITT o PP, descrivendoti il significato delle due procedure.
Clinical trials: evidenza ai massimi livelli
La creazione e conduzione dei clinical trials è uno dei momenti più affascinanti di chi si occupa di ricerca. Gli studi clinici, specialmente gli RCT, sono la punta di diamante dell’evidenza scientifica. Essi sono infatti il meglio della ricerca scientifica insieme a systematic review e meta-analisi.
Nell’ambito degli studi clinici, gli RCT sono i mezzi di validazione di un nuovo farmaco o di un nuovo tipo di intervento. Condotti secondo i più rigidi criteri scientifici e metodologici, questa tipologia di studio consente di raggiungere un altissimo livello di evidenza.
Un’analisi statistica ben fatta è uno dei requisiti fondamentali per l’esecuzione corretta di un clinical trial. Dal calcolo della dimensione del campione fino alla determinazione del livello di generalizzazione permessa dai tuoi risultati, la statistica ricopre un ruolo di primo piano.
Come già detto in altri articoli, per eseguire i clinical trials è necessario pianificare lo studio secondo un rigoroso e ben delineato protocollo di ricerca. Il protocollo è infatti un requisito essenziale sia per consentire la valutazione dello studio da parte di un Comitato Etico sia per non “perdere la rotta” durante l’esecuzione del trial stesso.
Uno degli argomenti da decidere a priori è il tipo di approccio allo studio, ossia Intention-to-treat o Per Protocol analysis? Dall’approccio scelto derivano infatti delle conseguenze con impatto di diretto sulla metodologia statistica che si intende adottare.
Intention-to-treat (ITT)
La diffusa locuzione inglese intention-to-treat sta per “intenzione di trattare”. Propriamente, adottare un approccio ITT significa tener conto nell’analisi primaria di ogni soggetto incluso inizialmente nello studio. Quindi tutti i soggetti inclusi ed assegnati ai rispettivi bracci (arms) dello studio con procedura di randomizzazione, fanno parte dello studio.
Questo significa che nel caso in cui un soggetto abbandona lo studio prima della fine dello stesso, esso rimane comunque assegnato al gruppo e di conseguenza incluso nell’analisi primaria. Tutto ciò permette di evitare un potenziale bias dovuto all’esclusione dei pazienti.
Per Protocol Analysis (PP)
L’analisi per protocollo ha invece come obiettivo quello di identificare l’effetto di uno specifico trattamento quando tutte le condizioni dello studio sono presenti. Mi spiego meglio. Lo scopo dell’approccio Per Protocol Analysis ha come obiettivo quello di definire l’efficacia di un trattamento quando i pazienti sono perfettamente conformi ai criteri di inclusione/esclusione stabiliti a priori.
A differenza dell’intention-to-treat, l’approccio per protocollo prevede che quando, in corso di trial, vi sono soggetti, inizialmente inclusi nello studio, ma non più conformi ai criteri (e.g., assunzione di farmaci o insorgenza di patologie che comportano l’esclusione), questi soggetti devono essere esclusi dall’analisi primaria.
Approccio intention-to-treat o per protocol analysis: come scegliere?
Eccoci quindi tornato al dubbio amletico: intention-to-treat o per protocol analysis? Partiamo da un dato fondamentale: entrambi gli approcci sono validi. Ciò che cambia è il loro ruolo nell’analisi degli studi clinici.
Riprendiamo un po’ di statistica
Prima di rispondere alla domanda amletica, pongo un quesito. Cosa c’è di peggio per uno studio clinico: affermare che c’è un effetto terapeutico, quando invece non esiste, oppure concludere che la validità di una terapia efficace non può essere dimostrata?
Se dichiarassimo che c’è un effetto terapeutico, quando invece non esiste, allora metteremmo a rischio i pazienti dando loro una terapia inefficace. Se commettessimo il secondo errore, allora priveremmo i pazienti di una terapia efficace. Sono sicura che hai pensato tra i due errori, il primo è sicuramente il peggiore!
Per tranquillizzarti, ti do subito la risposta: il primo è il peggiore! Il principio di “do not harm!” regola la ricerca scientifica, prima ancora della Dichiarazione di Helsinki.
Errori statistici: un breve ripasso
Cerchiamo di capire che ne pensa la statistica di questi due errori.
Il primo errore (accettare una terapia inefficace) significa affermare che è stata statisticamente provata l’efficacia di un trattamento, quando invece non lo è.
La seconda situazione significa affermare che non è stata provata evidenza, ma neanche rifiutata! L’efficacia dunque non è provata, ma per la statistica non è provato neanche il contrario, ossia l’inefficacia (vedi articolo su p-value).
In termini statistici, la prima situazione, statisticamente nota come errore di tipo I, è tenuta sotto controllo da un livello di significatività, impostato a priori e volutamente basso: 5% (p < 0.05). Questo significa che la probabilità che si accetti come valida una terapia inefficace o addirittura nociva è inferiore al 5%.
La seconda situazione, statisticamente nota come errore di tipo II, è controllata tramite un calcolo significativo della dimensione del campione, ma meno rigoroso del primo (solitamente si valuta un 20%).
Dunque, tra i due errori, meglio quello che ci porta ad una non decisione piuttosto che ad una decisione sbagliata.
Scegliamo tra intention-to-treat e per protocol analysis
Dopo questa breve digressione sugli errori statistici, torniamo al clinical trial. Da quanto abbiamo appena detto, bisogna evitare di sopravvalutare l’effetto (tecnicamente è l’over estimation).
Questo significa che il nostro approccio statistico deve mirare a scegliere un metodo che sia prudente, quindi che eviti l’errore di tipo I. L’approccio più conservatore è quello ITT negli studi di superiorità.
L’obiettivo degli studi di superiorità è, dati due trattamenti, uno sperimentale e l’altro in uso, dimostrare che quello sperimentale è migliore di quello in uso senza tuttavia aumentare la probabilità che si verifichi l’errore di tipo I.
L’approccio ITT “annacqua” un po’ gli effetti perché include anche i pazienti che per qualche motivo hanno abbandonato lo studio, così tende a sottostimare gli effetti.
Presumendo che l’abbandono non si verifichi in un solo gruppo, ma in entrambi, l’ITT abbassa le differenze tra i trattamenti e quindi riduce l’effetto. L’approccio PP è invece più indicato per le analisi di sensibilità.
Conclusione
Dunque, ecco la soluzione del dubbio amletico. Se il tuo studio mira a dimostrare la superiorità di un trattamento su un altro, l’approccio deve essere ITT e deve essere accompagnato da un’analisi di sensibilità.
Se i risultati tra i due approcci differiscono notevolmente: beh, è giunta l’ora di farsi domande su come lo studio è stato condotto! E se non hai dimestichezza con gli strumenti della statistica e delle metodologie di ricerca: meglio farsi aiutare, prima che le riviste contestino i tuoi risultati!